DAVIDE MARCESINI

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Condizioni necessarie e sufficienti per fotografare

Mi capita in mano un breve appunto sui miei ricordi di aspirante fotografo. All’inizio ad essere sinceri non sapevo di voler diventare un fotografo, ero solo appassionato dall’idea della fotografia, questa cosa fumosa che ti permette, con una scatoletta di ferro ed un rullino, di creare un’opera quasi dal nulla. Basta un piccolo pezzo di realtà che faccia da punto di partenza e si incroci con la tua idea del mondo. Un centoventicinquestimo di secondo dopo o giù di lì  hai già del materiale su cui lavorare. Mancano ancora sviluppo e stampa e in questa fase ancora molto può cambiare ma la matrice iniziale è già tutta lì, una traccia del mondo e dei tuoi pensieri.

Nel diario ritrovato scrivevo di “Condizioni necessarie e sufficientiper fotografare", ecco il testo :

<<Venezia e Albertoerano un connubio irresistibile. Venezia é..Venezia, Alberto fotografo professionista.  Cosa si poteva desiderare di più dalla vita ( almeno dalla vita di fotografo)? Il mio primo corso fotografico, toccavo il cielo con un dito. Soltanto il fatto di andare era già una meraviglia: non ricordo neanche bene il luogo, ma il percorso si', canale per canale,  dall'altra partedella città, silenzio  e umido assicurati.  E poi orgoglioso, non so perché, visto cheper le calli-scorciatoia alle nove non si incontra nessuno, trascinavola mia Minolta x300s comprata con i soldi del congedo di leva. La sede del corso eraspoglia, la ricordo bassa e lunga, a volta, sul tavolo che l percorreva per tutta la sua lunghezza era offerta alla vista l'attrezzatura di Alberto,  al centro di  facce ansiose di ingoiare tutta la fotografia: ricordo qualcosa di bellissimo che col senno di poi poteva essere un’Hasselblad, più altro che non decifravo, forsefiltri, esposimetro, aggeggi vari, tutto troppo complicato allora.

Partiti con le nozioni tecniche, numeri, cose chesembravano molto difficili, cominciai a fare come a scuola, facevo finta di capire. Non riuscivo bene a costruirmi una mia gerarchia: quali erano le questioni fondamentali'? Quali aspetti indagare per primi?  Avevo un orizzonte fotografico molto limitato. Ero più interessato ad ascoltare i racconti di Alberto sui suoi lavori, i luoghi che fotografava, sbavavo al resoconto di un servizio per il mitico Caffè Florian. Ma di questo si parlava soltanto durante il tragitto di ritorno: la strada  “obbligava” alla compagnia di un paio dibelle figliole, la conversazione era sbilanciata, più battute che fotografia ( anche se il fotografo ha sempre voglia di cantare le sue imprese!). Era una di quelle poche volte che desideri non aver donne intorno.

Nella confusione degli inizi mi sfuggiva:

- che ero a Venezia, avevo il tempo tutto dalla mia parte, libero di consumare i piedi per le calli e sfogarmi con la mia macchinina

- che la fotografia non si esaurisce nella tecnica

Mi mancava un’idea, o perlomeno non sapevo di averla.

Quell' anno abbandonaigli studi di Architettura e tornai a casa: uno dei pochi risultati ottenuti era l’esame di Storia e tecnica della Fotografia, Italo Zannier dietro la cattedra che non mi diede la lode: diceva che sapevo tutto ma le mie foto di architettura erano storte! Non riuscii a convincerlo che l’edificio sotto casa sul quale lavoravo era sbilenco di suo, eppure a Venezia ce ne sono molti. In ogni caso quell’esame cambiò la mia vita, l’ho capito in seguito.

A casa ero depresso per la mancanza di scuole o corsi a portata di mano. Ne cominciai a frequentare uno a Genova abbandonato dopo un paio di lezioni: accade che ascoltai la come i “veri fotografi” tengono la macchina al collo a differenza degli amatori, capii che stavo sprecando energie (per i curiosi: sappiate che gli uni tengono la cinghia sulla spalla, gli altri attorno al collo!).

Finchè capii cosa serviva davvero per cominciare: averne voglia, ma proprio tanta.

Allora ero a buon punto.

Cominciai a guardarmi intorno: potevocomprare libri (fosse già esistito internet!), e poi andare a tutte le mostre possibili, belle e brutte, di maestri e sconosciuti. E soprattutto interpellare quelli che le foto le facevano davvero ( perchè il dubbio che chi fa'...fa', gli altri insegnano, ora che faccio corsi regolarmente,   mi è sempre rimasto): a Sarzana c’era la vetrina di Riccardo sempre piena di belle foto, ein bianco e nero!  Finì che mi accettò " a bottega": non che lo pagassi, cercavo di rendermi utile e luiin cambio mi ha insegnato tantissimo di quel poco che so.

E scoprii che la prima cosa da imparare l'avevo già: la passione che mi muoveva e che ancora ora fa in modo che non riesca a considerare lavoro quello che faccio. Anche se spesso è molto faticoso. Poi l’idea, intuita e fumosa, che la fotografia fosse qualcosa di importantissimo, una chiave per capire le cose che mi circondano e che può coinvolgere molte persone: una grande responsabilità. Niente a che vedere con l’affermazione delle proprie aspirazioni artistiche: questo aspetto esiste, ben presente, ma è una conseguenza. Quando diventa preminente produce pessimi risultati. 

Ecco quindi le mie condizioni necessarie e sufficienti per fotografare: passione e idee. >>

Riletto oggi penso di aver scritto delle sciocchezze, si fotografa per un’infinità di altri motivi, dipende da cosa vuoi e da che persona sei. Ma di una cosa sola sono certo: siamo venuti al mondo per dare il massimo, per cose importanti, ognuno in proporzione alla sua storia e alle sua capacità. Per questo non so se tutti i motivi per cui si fotografa siano equivalenti.